31 maggio 2009, si gioca Fiorentina - Milan, ultima di campionato.
È il minuto 87 quando, nonostante i rossoneri abbiano già esaurito i cambi, Carlo Ancelotti interrompe la partita e richiama Paolo Maldini in panchina. I giocatori della Fiorentina se ne accorgono e di proposito mettono la palla fuori per consentire la passerella finale all’eterno capitano.
Una cosa mai vista nel mondo del calcio.
Paolo Maldini capisce, ed emozionato si incammina verso l’uscita per ricevere l’ultima meritata standing ovation. Una volta fuori, dopo un lungo abbraccio con il suo allenatore e amico Carletto, rimane lì, a bordo campo, a ringraziare tutte quelle persone che lo stanno acclamando. La maggior parte sono fiorentini.
Papà Cesare a stento dalla tribuna trattiene le lacrime, mentre sugli spalti si notano due striscioni emblematici: «Onore alla tua carriera» dalla Fiesole; di fronte, nel settore milanista, l’altro: «la tua storia la nostra gloria».
È uno di quei momenti devastanti.
Il sipario sta scendendo definitivamente dopo ventiquattro lunghi anni e 26 trofei in rossonero.
In uno stadio, l’Artemio Franchi di Firenze, stracolmo ed emozionato, una settimana dopo quelle tristi e incomprensibili scene viste a San Siro.
Ma no, quei pochi non ce l’hanno fatta a rovinargli l’addio.
Perché uno come Paolo Maldini è simbolo rossonero ma vanto italiano, perché è leggenda milanista ma campione di tutti. Perché la sua statura sportiva e morale va ben oltre fedi, simpatie o polemiche.
Uno come Paolo Maldini va oltre qualsiasi cosa.
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