"Dormivamo in 14 in una stanza. Mia nonna Emma nel letto e noi tredici fratelli sul pavimento. Mio padre William e mia madre By si erano separati e se n'erano andati lontani, la nonna aveva radunato tutta la famiglia in una stanza e affittava il resto della casa per qualche soldo. Mangiavamo riso. Riso e basta. Avevo sempre fame. Brutta cosa, la fame...
Tra paludi e zanzare, nella baraccopoli di Clara Town, vicino al porto di Monrovia, sono cresciuto per strada, mi arrangiavo con mille lavoretti, giocavo a carte, fumavo... Non ho mai rubato, ma se avessi dovuto farlo, per fame, l'avrei fatto.
Amo il calcio, gli devo tutto. Quando giocavo al Milan, nelle giornate a Milanello, alcuni compagni di squadra giocavano a biliardo, altri a carte, altri leggevano sui divani cronache di calcio. Sempre calcio, calcio, calcio... Non è questa la vita. Al fischio finale dell'arbitro, il calcio non era più il mio primo pensiero. Tornavano a galla i ricordi dei morti della guerra civile: parenti, amici, cugini, ragazzi con cui sono cresciuto. Negli anni a Monaco, a Parigi, a Milano ho cercato di non essere sempre lì con la testa. Sennò non avrei potuto giocare. Invece dovevo giocare, e bene. Era il mio lavoro. Per 90 minuti c'era solo il pallone. Ma appena finiva la partita, tornavo con la testa li, in Liberia".
George Weah
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